La conquista del “mio” cielo

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Talvolta ci sono conquiste apparentemente piccole, che un osservatore frettoloso potrebbe considerare insignificanti, le quali, tuttavia, hanno il magico potere di cambiare i “colori” della nostra vita quotidiana. Così è accaduto a proposito di un episodio che io amo definire scherzosamente “la mia conquista del cielo”, oppure, ispirandomi alla famosa canzone di Paoli, “il mio cielo in una stanza”.

Le cose sono andate così. Quando mio marito costruì la casa nella quale abitiamo, fece orientare l’ampio salone del soggiorno in una stupenda prospettiva panoramica, dalla quale fosse possibile vedere il suggestivo lago situato non lontano dalla nostra abitazione e, soprattutto, il cielo, che per me è stato sempre un azzurro invito a volare verso l’Infinito. Inizialmente, però, mio marito volle che le ampie porte-finestre del salone, che si aprivano su questi affascinanti spazi, fossero munite di solidi e “impenetrabili” infissi, che spesso, anche per motivi di sicurezza, finivano col rimanere chiusi, impedendo la visione del panorama esterno. In questi momenti il salone assumeva l’aspetto di una “fortezza “, che mi suscitava un senso profondo di prigionia e di oppressione, e, in particolare, mi privava della visione del cielo, del “mio” cielo. Cercai più volte di esternare questa mia spiacevole sensazione a mio marito, chiedendo che fosse posto rimedio a tale incresciosa limitazione, che sentivo gravare su di me come una specie di “condanna”, come una sorta di crudele “supplizio di Tantalo”, obbligato ad avere l’oggetto del suo desiderio a portata di mano, senza poterlo tuttavia raggiungere.

Le mie rimostranze rimasero per lungo tempo inascoltate, a fronte di considerazioni di carattere del tutto pratico, con le quali si cercava di convincermi della assurdità della mia “pretesa” di aprire “sconsideratamente” gli affacci del salone, esponendo la casa al rischio di eventuali irruzioni di malintenzionati. Questa possibilità non era del tutto remota, per cui dovetti in un primo tempo rassegnarmi a considerare il mio “bisogno di cielo” come un’utopia alla quale avrei potuto rispondere soltanto a intermittenza, quando i tempi e i modi lo avessero potuto permettere, come accade per le “ore di aria” dei carcerati. Ma fortunatamente la mia malinconica rassegnazione non passò inosservata a mio marito, malgrado pensassi il contrario. E venne un giorno, un meraviglioso giorno, in cui egli si presentò a casa con degli operai che trasportavano grandi vetrate antiproiettile, le quali furono sostituite ai vecchi, grigi infissi e collocate in nuove solide cornici. Il salone fu come magicamente inondato da inaspettate cascate di luce, si riempì di brillanti colori e, soprattutto, il cielo entrò finalmente impetuoso e trionfale nella “mia” stanza, ma soprattutto nella mia anima, che ancora oggi continua a sentirne quotidianamente il richiamo ; un richiamo che mi trasforma in una creatura alata, in grado di volare verso le stelle infinite, viva e partecipe di un cosmico concerto.

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