Tutti noi ricordiamo con commossa nostalgia il film “Il postino”, che nel 1994 il regista scozzese Michael Redford girò quasi interamente nell’isola di Salina, avvalendosi della indimenticabile e geniale coppia formata da Massimo Troisi e Philippe Noiret, cui si associava anche la splendida bellezza mediterranea di Maria -Grazia Cucinotta. Il film, adattamento cinematografico, voluto e progettato da Troisi, del romanzo “Ardente paciencia” (1986) dello scrittore cileno Antonio Skarmeta, trattava del soggiorno che il grande poeta cileno Pablo Neruda, in esilio dal proprio Paese a causa delle sue idee comuniste, trascorse in Italia, all’inizio degli anni ’50, ospite – nella realtà – dell’isola di Capri.
Il film ancora oggi riveste un particolare valore affettivo, perchè è l’ultima fatica di Massimo Troisi, il quale, già sofferente di cuore, morì al termine delle ultime riprese, lasciando con questo suo lavoro una sorta di delicatissimo “testamento spirituale”, ricco di commovente poesia. La trama del film (e del romanzo), sospesa fra realtà storica e fantasia, descrive l’incontro fra il grandissimo poeta Pablo Neruda (nel film impersonato da Philippe Noiret), premio Nobel per la Letteratura nel 1971, e l’umile postino Mario Ruoppolo (Massimo Troisi), incaricato del quotidiano recapito della posta al “Maestro”. Un incontro singolare e suggestivo fra due personaggi ciascuno fuori dall’ordinario, i quali, pur diversi fra loro per l’abissale differenza culturale ed esistenziale, trovano nell’amore per la poesia una inaspettata possibilità di comunicazione, che li fa diventare profondamente ed appassionatamente amici.
Da un lato vi è il “Poeta professionista”, politicamente impegnato, che, a contatto con la natura inebriante ed incontaminata dell’isola mediterranea, trova e “respira” il profumo della poesia in tutte le cose che lo circondano ; dall’altro vi è il modestissimo figlio di pescatori, che, pervaso da una inquietudine ricca di vibrazioni emotive e di struggente sensibilità che lo rendono estraneo dinanzi al semplice mondo marinaro, sente da sempre nel cuore il richiamo di un misterioso “altrove” che si cela dietro la realtà di tutti i giorni. L’incontro fra i due personaggi, muovendo da circostanze del tutto casuali, diviene ben presto “magico” e quasi “predestinato”, come se ambedue si fossero da sempre “cercati”. Il Postino, praticando il Poeta e cominciando a leggere, affascinato, i suoi libri rimarrà come “illuminato” dai misteriosi e nascosti significati che si celano dietro ogni aspetto della realtà, che solo la Poesia può svelare con il suo libero e sconfinato gioco di metafore ; il Poeta, a sua volta, si sentirà come “rinascere” ancora più intensamente e profondamente alla Vita e alla Poesia, mentre educa il Postino a “guardare” il mondo con occhi nuovi, pervasi di stupore e di meraviglia, e ad “ascoltare” il linguaggio e il canto segreto e impercettibile delle cose.
In questa mirabile osmosi, ognuno dei due personaggi diviene simultaneamente “educatore ed educato”, in uno stupendo scenario paesaggistico, dove domina il mare come un seducente ed incontenibile invito a lasciarsi sommergere dalla liquida suggestione dell’Invisibile. Con questo scambio contrappuntistico fra due personaggi che veramente divengono fra loro “concertanti” come un armonioso duo musicale, il film raggiunge vette artistiche di sublime bellezza e forse racchiude in sè, con il semplice linguaggio delle immagini, e valicando i confini di ogni possibile saggio letterario, la vera essenza di alcuni temi fondamentali della stessa poesia di Neruda.
Primo fra tutti, una sorta di “sentimento oceanico” della Natura e dell’ Amore, che contraddistingue in modo indelebile l’ispirazione del grande poeta cileno. La sua poesia ha raggiunto indubbiamente l’espressione più nota nell’ambito dell’impegno politico che per molta parte animò appassionatamente l’uomo-Neruda, assetato nobilmente di giustizia sociale e coinvolto negli eventi politici e bellici più terribili del ventesimo secolo ; ma la chiave più autentica e strabiliante del suo linguaggio poetico è racchiusa in un modo del tutto “misterioso” e “suggestivo” di sentire la Natura e di coglierne i più segreti richiami.
In questo, Neruda è un poeta che non “canta” ma “si lascia cantare” da essa. Egli non “impone” una forma alle cose, ma lascia che le cose entrino in lui, con i loro più remoti bisbigli, quasi “sorprendendolo” e obbligandolo a dar loro la parola. In questo dialogo non vi è più distinzione fra soggetto e oggetto, ma tutto diviene “sconfinato”, come in una sorta di “naufragio cosmico”, dove l’io del Poeta si dilata in modo illimitato, abbracciando in sé l’intera Natura, e la Natura, a sua volta, “prende la parola” attraverso l’io del Poeta, come in una tango senza fine, fatto di scambi e di reciproci, appassionati sussurri.
“Accadde in quell’età … La poesia / venne a cercarmi. Non so da dove / sia uscita… / non erano voci, non erano / parole né silenzio, / ma da una strada mi chiamava, / dai rami della notte … / Non sapevo che dire, la mia bocca / non sapeva / nominare, / … Mi feci da solo / decifrando / quella bruciatura, / e scrissi la prima riga incerta / vaga, senza corpo, pura, / sciocchezza, / pura saggezza / di chi non sa nulla, / e vidi all’improvviso / il cielo / sgranato / e aperto / pianeti / … la notte travolgente, l’Universo. / Ed io, minimo essere, / … a somiglianza, a immagine / del mistero / mi sentii parte pura / dell’abisso, / ruotai con le stelle, / il mio cuore si sparpagliò nel vento. (“La poesia”, da “”Memoriale di Isla Negra”, 1964
Questa magica, cosmica “simbiosi” è, appunto, il “sentimento oceanico” che guida il suo poetare. Un poetare che cerca continuamente di distanziarsi da qualsiasi forma di accademismo intellettualistico che “pietrifica” inesorabilmente la vita dell’uomo fin dall’infanzia, soffocando in lui la freschezza della libera spontaneità. “Ho visto dei monumenti / innalzati ai titani, / agli asini dell’energia. / Li tengono lì immobili / con le loro spade in mano / sopra quei tristi cavalli. / Sono stanco delle statue. / Non ne posso più di tanta pietra. / Se continuiamo a riempire / così con gli immobili il mondo, / come potranno vivere i vivi?” (“Certa stanchezza”, da “Stravagario”, 1958)
A questo rischio, Neruda contrappone un tipo di poesia che attinga all’essenzialità del rapporto con le cose, quasi in un magico “ritorno alle origini intrauterine” della vita, dove altro non rimane che lasciarsi andare al magma immediato e persino indifferenziato delle emozioni e degli “ascolti” più remoti, per poi riprendere forma in una nuova vita.
“Voglio che l’uomo quando nasce / respiri i fiori nudi, / la terra fresca, il fuoco puro, / non ciò che tutti respirano. / Lasciate tranquilli quelli che nascono! / Fate posto perchè vivano! / Non gli fate trovare tutto pensato, / non gli leggete lo stesso libro, / lasciate che scoprano l’aurora / e che diano un nome ai loro baci” (ibidem).
Questa appassionata ricerca d’immersione totale nella Natura, “esplode” infine in un verso che costituisce una vera e propria “poetica” : “Pido permiso para nacer” (chiedo il permesso di nascere), che Neruda scrive in una delle sue poesie più significative (“Pido silencio”) della raccolta “Stravagario”, del 1958, nella quale dopo essere stato il poeta del “pueblo” (popolo), imprime alla sua ispirazione un nuovo corso, forse quello che potremmo definire più autentico, cioè più consono alla sua più intima natura di “cantore incantato” delle cose.
Ora lasciatemi tranquillo. / Ora abituatevi senza di me. / Io chiuderò gli occhi. / E voglio solo cinque cose, / cinque radici preferite. / Una è l’amore senza fine. / La seconda è vedere l’autunno. / Non posso vivere senza che le foglie / volino e tornino alla terra. / La terza è il grave inverno, / la pioggia che ho amato, la carezza / del fuoco nel freddo silvestre. / La quarta cosa è l’estate / rotonda come un’anguria. / La quinta cosa sono i tuoi occhi. / Matilde mia, bene amata, / non voglio dormire senza i tuoi occhi, / non voglio esistere senza che tu mi guardi : / io muto la primavera / perchè tu continui a guardarmi.” (“Chiedo silenzio”, da “Stravagario”, 1958).
Qui, il bisogno di lasciare che l’intero ciclo delle stagioni scorra nella propria anima e vi metta “radici”, dilagandovi come un fiume impetuoso di sensazioni che sfocia nell’oceano spumeggiante di una nuova Primavera è l’espressione di un abbandono totale di sé e della propria ispirazione alle suggestioni di una Natura che viene percepita e osservata con gli occhi innocenti e “vergini” di chi, nascendo, o, per meglio dire “ri-nascendo”, si apre per la prima volta allo spettacolo multicolore della realtà.
Ma due sono gli “ingredienti” per operare questo magico “azzeramento” di sé : uno è il “silenzio” (“Pido silencio” è, appunto, il titolo della poesia, che si apre con due invocazioni : “Ora lasciatemi tranquillo. / Ora abituatevi senza di me.”) ; l’altro è “l’Amore” (“L’Amore senza fine”). L’Amore è il grande invito, la magica lente che corregge e trasforma i nostri occhi e li pone in grado di cogliere l’invisibile che si cela dietro ogni apparenza. Senza la potentissima spinta dell’Amore, i nostri occhi rimarrebbero senza anima, condannati a scorrere su di una realtà piatta, anonima e incolore. E quando Neruda parla d’Amore, allude esplicitamente alla sua ardente passione per Matilde Urrutia, la cantante cilena di cui egli si innamorò perdutamente nel 1952, e che diverrà poi la sua terza moglie dal 1956. In questi versi, gli occhi di Matilde, come in un magico gioco di specchi, trasmettono luce allo sguardo del Poeta, risvegliandolo alla suggestione e ai colori sublimi del Mistero.
Altrove, Neruda celebrerà il potere quasi “taumaturgico” della sua Matilde come animatrice di vita dinanzi alla penombra del dubbio : “Quando la nostra vita inaridisce / ci restan solo le radici / e il vento è freddo come l’odio. / Allora cambiamo pelle, / unghie, sangue, sguardo, / e tu mi baci e io esco / a vender luce per le strade.” (“Quanto succede in un giorno”, da “Stravagario”, 1958).
Dall’intreccio quasi magico di tutte queste componenti, la poesia di Neruda approda veramente in un sublime universo di sogno, che la rende veramente “oceanica” e continuamente sorprendente nel suo libero e suggestivo gioco di immagini che si susseguono incessantemente, con forza inarrestabile.
Una forza che nel 1934, faceva dire all’altro grandissimo poeta, Federico Garcia Lorca, in occasione della presentazione delle prime opere di Neruda, suo grande amico, queste memorabili parole : “E dico che vi disponiate a sentire un autentico poeta, di quelli che hanno i sensi ammaestrati per un mondo che non è il nostro e che pochi percepiscono. Un poeta … più vicino al sangue che all’inchiostro. Un poeta pieno di voci misteriose che per fortuna lui stesso non sa decifrare ; di un uomo vero che ormai sa che il giunco e la rondine sono più eterni della guancia dura della statua…. Una poesia che non si vergogna di rompere gli stampi, che non teme il ridicolo e che improvvisamente si mette a piangere in mezzo alla strada”. (Federico Garcia Lorca, “Presentacion de Pablo Neruda”, 1934)
Ed è naturale che fra le tante fonti di ispirazione poetica, il mare occupi una fondamentale posizione di primo piano nella poesia di Neruda, quasi a testimoniare la misteriosa, abissale, dilagante e fluttuante libertà del suo “cantare incantato”, che è e rimarrà sempre l’espressione più autentica del suo linguaggio poetico : “Ho bisogno del mare perchè mi insegna, / non so se imparo musica o coscienza : / non so se è onda sola o essere profondo / o solo roca voce o abbacinante / supposizione di pesci e di navigli. / Il fatto è che anche quando sono addormentato / navigo in qualche modo magnetico / nell’universalità delle acque”. (“El Mar”, da “Memoriale di Isla Negra”, 1964)