Vi sono, nella nostra vita, passaggi cruciali in cui la “tempesta del dubbio” si insinua in modo sottile nella nostra mente, come un’insidia erosiva, facendoci perdere il significato del nostro esistere.
Si tratta di stati d’animo “crepuscolari” nei quali avversità, sconfitte, delusioni, perdite irreparabili di persone care, incomprensioni, malattie ed altri intensi disagi stendono un velo di insoddisfazione e di paura sulla nostra esistenza e ci inducono a bilanci negativi, dove il nostro intero percorso esistenziale viene messo in discussione, con la devastante sensazione che tutto ciò che abbiamo vissuto in precedenza sia stato soltanto un cumulo di errori e una dolorosa lista di occasioni perdute
Il passato si tinge di grigiore, il futuro perde qualunque attrattiva, il presente diviene vuoto e privo di senso, e ci lasciamo vivere per forza di inerzia, guardando senza guardare, sentendo senza sentire, incapaci di progettare, di sognare, di dare una finalità qualsiasi anche alla più semplice delle nostre azioni.
Ogni cosa si appiattisce, diviene monodimensionale, perde prospettiva e profondità. Le persone, gli oggetti, le situazioni, gli ambienti in cui viviamo, ed infine noi stessi : tutto perde luminosità, nulla è più in risalto, come inghiottito e confuso in un unico sfondo opaco.
In quei momenti è come se vivessimo in un continuo stato di “nausea”, e potremmo identificarci con il conturbante personaggio Antoine Roquentin, protagonista de “La nausea”, il capolavoro di J.P.Sartre, mormorando, sconsolati, con lui, che “tutto è gratuito, questo giardino, questa città ed io stesso. Quando capita di accorgersene, viene il voltastomaco e tutto comincia ad oscillare : ecco la Nausea” (J.P.SARTRE, La nausea, 1938)-
Queste angosciose sensazioni ci tolgono la gioia di vivere e imprigionano il nostro io come in un “lager”, privandolo di identità e rendendolo “cosa” insignificante, fra altre “cose” altrettanto insignificanti.
In quei momenti di intenso, abissale smarrimento, ci poniamo incalzanti domande, ma sembra che il nostro io non riesca a trovare risposte in grado di farci uscire dalla terribile prigionia della disperazione. La disperazione è come un potentissimo amplificatore che, con le sue onde insidiose, si propaga inesorabilmente attorno a noi, finendo col tingere di grigiore tutto ciò che ci circonda. E in quel momento è come se ci sentissimo parte di un’Umanità mesta e dolente, che da sempre si è interrogata, si interroga e si interrogherà sul senso della Vita, alla ricerca di un mondo migliore, mentre ogni domanda si perde nel vento del nulla e della non-risposta.
Come nella indimenticabile ballata di Bob Dylan, “Blowin’ in the wind” (1962).
“Quante strade deve percorrere un uomo / prima che tu possa chiamarlo uomo? / E quanti mari deve trasvolare una bianca colomba / prima di riposare sulla sabbia? / Quante volte devono volare le palle di cannone / prima di essere proibite per sempre? / La risposta, amico mio, si perde nel vento, / la risposta si perde nel vento. / Quante volte un uomo dovrà guardare in alto / prima che possa vedere il cielo? / E quante orecchie deve avere un uomo / prima di poter sentire la gente piangere? / E quante morti ci vorranno prima che riconosca /che troppa gente è morta? / La risposta, amico mio, si perde nel vento. / Quanti anni può resistere una montagna / prima di essere erosa dal mare? / E quanti anni possono resistere alcuni uomini / prima che sia permesso loro di essere liberi? / E per quante volte un uomo può distogliere lo sguardo / fingendo solo di non aver visto? / La risposta, amico mio, si perde nel vento, / la risposta, amico mio, si perde nel vento……”.
Ma proprio quando stiamo toccando il fondo del nostro “male di vivere”, del nostro tormentato e torturante giaciglio di dolore, dove non c’è riposo né tregua : sarà il destino, sarà il caso, sarà un “disegno provvidenziale”, sarà l’intervento di una “Volontà Superiore”, ecco che sfogliando svogliatamente qualche libro della mia biblioteca, mi imbatto improvvisamente in un testo con un titolo che mi arriva dritto al cuore, come una saetta : “Uno psicologo nei lager”, di Victor Frankl. Un libro che ho comprato qualche anno fa, in momenti più sereni, e che ho scorso distrattamente, riservandomene la lettura in tempi successivi, come talvolta faccio. Un libro il cui autore mi è noto come ideatore della cosiddetta “logoterapia”(terapia mediante il dialogo), mirante a far recuperare il senso della vita all’uomo che soffre.
Un programma che spesso ho considerato con un certo scetticismo, ma che ora, alla luce di questo titolo, mi suscita una nuova, strana e avida curiosità.
E’ uno scritto inquietante e sconvolgente, me ne accorgo fin dalle prime pagine, che – leggo nell’introduzione – l’autore compose di getto, in nove giorni, a Vienna, dopo essere scampato quasi per miracolo, assieme ad altri pochi superstiti, alla terribile esperienza di internato nei lager di Theresienstadt, Auschwitz, Kaufering e Turkheim (Dachau), e dopo avere appreso con immenso dolore, dello sterminio della sua famiglia (padre, madre, fratello e carissima moglie, che aveva sposato da poco, durante la guerra)..Là, nell’inferno devastante e degradante della bestialità di quei lager, egli si era trovato, fra mille sofferenze, ad essere privato di tutto, anche della propria identità, che i suoi aguzzini avevano ridotto a semplice numero : 119.104, per triste cronaca.
Ecco una persona obbligata con violenza inaudita a diventare come Roquentin – mi dico : chissà quale tremenda, ributtante “nausea” dinanzi ad un mondo così sadico, persecutorio e crudele, il cui scopo è unicamente quello di togliere senso alla vita, infliggendo inaudite sofferenze non solo fisiche, ma anche morali! E mi immagino che il libro di Frankl sia un atto di denuncia indignata e disperata contro la inimmaginabile ferocia nazista.
Ma non è così. Leggendo nell’indice la successione delle varie parti del libro, subito vengo attratta da un capitolo intitolato “La riscoperta dell’interiorità”. E’ come un richiamo che scuote d’incanto la cappa plumbea del mio crepuscolarismo. Proprio là, in un luogo dove si distrugge nel modo più infame e degradante la vita umana, mi trovo improvvisamente dinanzi ad un uomo che tiene testa ai suoi aguzzini, contrapponendo alla loro cieca crudeltà l’unica, grandissima forza che gli è rimasta : quella della sua dignità di uomo, del suo diritto ad avere un passato da evocare, una memoria da conservare, una speranza da coltivare, un vissuto d’amore da sentire intensamente proprio nei momenti più orribili, nei quali gli uomini-bestia lo circondano e lo torturano, cercando con ogni mezzo di strappargli l’anima, di fargli perdere la memoria, per ridurlo ad un misero vegetale confinato in un presente senza orizzonti, dominato soltanto dalla preoccupazione di sopravvivere, non di vivere.
Egli, invece, ribatte a questo scempio, elaborando e trasformando la propria sofferenza in una nuova risposta dell’anima : un’anima che si rifiuta di spegnersi nell’oblio di una totale disfatta, e che, anzi, amplifica ancora di più il proprio sentire, continuando il dialogo con il proprio passato e mantenendo desto il filo di continuità che connette, come in una sinfonia senza fine, tutti i momenti della vita. Nessun aguzzino potrà mai sopprimere o scalfire questa “dignità”, che è “immateriale” e quindi imprendibile per i carnefici : i tormenti non la distruggono ; anzi la rafforzano ancora di più.
Mentre imperversa il furore animalesco di chi, munito di forbici crudeli, cerca di “separare”, con mille violenze, i prigionieri del lager dai propri ricordi, “a loro è possibile ritirarsi dallo spaventoso ambiente, volgendosi a un regno di libertà spirituale e di ricchezza interiore” (pag. 72), inaccessibile a quelle bestie umane.
A questo punto mi assale il desiderio irresistibile di immergermi nella lettura del libro, e subito vengo catturata, con improvvisa, crescente commozione, da questo passaggio : “…Che cosa succedeva quando dovevamo marciare di primo mattino dal lager al cantiere?”. Ordini secchi, violenti, perentori : “…. ancora una volta il ricordo fa risuonare questi comandi nel mio orecchio…. Attraversiamo la porta del lager. Su di noi, la luce dei riflettori. Chi non marcia rigido e teso, può contare sul calcio che la sentinella gli menerà con il tacco dello stivale …. Avanziamo ora nell’oscurità, inciampando sulle grandi pietre, attraverso pozzanghere lunghe dei metri…. Le sentinelle non smettono di urlare e ci spingono avanti col calcio dei fucili.
Chi ha i piedi coperti da troppe ferite, si appoggia al braccio del vicino, i cui piedi sono meno dolenti. Non parliamo, quasi ; il gelido vento dell’alba lo sconsiglia. La bocca nascosta dal bavero rialzato della giacca, il compagno che cammina accanto a me, sussurra d’un tratto : “….se le nostre mogli ci vedessero ora…. Vorrei che non sospettassero neppure che cosa ci succede….”. Improvvisamente, ho di fronte l’immagine di mia moglie. Mentre inciampiamo per chilometri…., sorreggendoci e trascinandoci…., di tanto in tanto guardo il cielo dove impallidiscono le stelle, o là, dove comincia l’alba, dietro una scura cortina di nubi. Ma il mio spirito è ora tutto preso dalla figura che si racchiude nella mia fantasia straordinariamente accesa e della quale non ho mai avuto sentore prima, nella vita normale. Parlo con mia moglie. La sento rispondere, la vedo sorridere dolcemente, vedo il suo sguardo, e – corporeo o meno – il suo sguardo brilla più del sole che si leva in questo momento. D’un tratto, un pensiero mi fa sussultare : per la prima volta nella mia vita provo la verità di ciò che per molti pensatori è stato il culmine della saggezza, di ciò che molti poeti hanno cantato ; sperimento in me la verità che l’amore è, in un certo senso, il punto finale, il più alto, al quale l’essere umano possa innalzarsi.
Comprendo ora il senso del segreto più sublime che la poesia, il pensiero umano ed anche la fede possono offrire : la salvezza delle creature attraverso l’amore e nell’amore! Capisco che l’uomo, anche quando non gli resta niente in questo mondo, può sperimentare la beatitudine suprema – sia pure solo per qualche attimo – nella contemplazione interiore dell’essere amato” (pag. 73-74).
Sono parole che mi sconcertano e mi scuotono repentinamente in profondità. Dunque, ecco dinanzi a me un uomo che proprio dal fondo della propria inaudita sofferenza, riscopre il senso dei più alti valori dell’esistenza, quasi per la prima volta, come se la sua stessa sofferenza, anziché distruggerlo, abbia amplificato il suo campo di coscienza, portandolo a nuove meraviglie e a vette mai toccate prima d’allora. E’ come se egli avesse trasformato i lugubri segnali di morte che lo circondano in una nuova spinta verso la vita, osando parlare di amore proprio là dove regna l’odio più spietato!
Come è possibile, mi chiedo, un “miracolo” così inaspettato ed insospettabile?
Procedo ancora nella lettura di quel testo così sconvolgente, e una nuova scoperta mi fa rimanere attonita : con l’amore e nell’amore, ecco anche la capacità di riappropriarsi del proprio passato, come solida certezza di esistere ancora e di avere un’interiorità indistruttibile “per rifuggire dal vuoto desolante, dalla povertà di contenuto spirituale dell’esistenza presente”.“Abbandonato a se stesso, il prigioniero ripercorre con sempre nuovo ardore gli avvenimenti passati, non quelli grandi, ma i più quotidiani. Spesso il pensiero si volge a cose o eventi insignificanti della vita precedente…. trasfigurati nel ricordo”. In questo modo, “la vita interiore acquista un’impronta speciale. Il mondo e la vita sono lontani ; lo spirito torna a loro con nostalgia : si viaggia sul tram, s’arriva a casa, si apre la porta di casa, suona il telefono, si alza il ricevitore, si accende la luce elettrica – sono questi i particolari che il prigioniero accarezza, ricordando il passato. E il doloroso ricordo di queste piccole cose lo commuove ….” (pag.77)Sentirsi vivi, ancora capaci di commuoversi, di provare emozioni, perché portatori di storia, la nostra storia, racchiusa nel fondo indistruttibile della nostra memoria : ecco un modo sublime di ridonare senso anche ai momenti più orrendamente tragici della propria esistenza! Là dove l’ottusa furia dei carnefici cerca di scarnificare la vita dei prigionieri, riducendola progressivamente ad una linea sempre più sottile di demarcazione fra vita e morte, dove solo la morte ormai può attrarre come unica e ultima libertà dalla sofferenza, il rianimarsi della memoria e dell’amore ridona spessore vincente alla Vita! E con la vittoria dell’istinto di Vita, ritorna l’emozione sublime della meraviglia dinanzi al Creato, che si intravede nuovamente dalle fessure della propria inenarrabile sofferenza. Questo “istinto di vita” “….faceva sentire con grande immediatezza l’arte o la natura, non appena se ne presentava l’occasione. Questa esperienza era talora così intensa, da far totalmente scordare l’ambiente e la nostra terribile situazione. Chi avesse visto i nostri volti trasfigurati dall’incanto, durante il viaggio in treno da Auschwitz a un lager bavarese, quando scorgemmo, dalle sbarre di un vagone cellulare, i monti di Salisburgo, con le cime rilucenti nel tramonto, non avrebbe mai creduto che erano volti di uomini che consideravano praticamente conclusa la propria vita…. La bellezza della natura, che ci fu negata per anni, ci entusiasmava…. E più tardi, nel Lager, durante il lavoro, qualcuno richiamava l’attenzione del compagno che gli sbuffava accanto, su un quadro meraviglioso che si offriva ai suoi occhi ; come avveniva, per esempio, nella foresta bavarese…. Quando il sole al tramonto irradiava di luce i tronchi degli alberi, proprio come in un famoso acquerello di Durer.” (pag. 78)
“….ricominci a rivolgere al cielo lamenti e domande. Per la millesima volta lotti per una risposta, lotti per il senso del tuo dolore, del tuo sacrificio – per il senso del tuo lento morire. In un’ultima impennata contro lo sconforto di una morte che ti è davanti senti che il tuo spirito squarcia il grigio intorno a te, e in quest’ultimo slancio …. evade da tutto questo mondo desolato e assurdo mentre alle tue ultime domande sul significato del dolore, risuona da qualche parte un “sì” vittorioso e pieno di Gioia. E in quest’attimo – risplende una luce nella lontana finestra d’una fattoria che sta all’orizzonte come un fondale, nel grigio disperato di un albeggiante mattino bavarese – ‘et lux in tenebris lucet’, e la luce risplende nell’oscurità….” (pag. 78-79)
Rinascere dal fondo del proprio dolore, rendendosene degni, ecco il possibile senso segreto della Vita. Vivere il Dolore come parte della Vita stessa, e non soltanto come pura negazione della Vita, e farlo dialogare con essa, assieme all’amore : ecco la possibile risposta esistenziale, quando le tempeste del dubbio devastano la nostra esistenza.
“Dostoevskij ha detto una volta : ‘Temo una cosa sola : di non essere degno del mio tormento’. Ripensammo più d’una volta a queste parole, quando abbiamo conosciuto uomini eroici, quasi dei martiri, che con il loro comportamento nel Lager, in mezzo a sofferenze e dolori, testimoniarono l’ultima e inalienabile libertà interna dell’uomo, gravemente compromessa. Avrebbero potuto dire a buon diritto che “furono degni del loro tormento”. Hanno dimostrato che, soffrendo rettamente, si i può realizzare qualcosa : una conquista interiore….”. (pag.115-116)
Adesso il libro mi ha catturata definitivamente : il suo messaggio dilaga nella mia mente e nella mia anima come un flusso inarrestabile di emozioni vitali che mi lasciano senza parole. L’insidiosa attrazione della nausea, del non-senso, che poco prima rischiava di spegnere ogni mio desiderio, annientando il tempo e riducendolo ad un grigio, misero presente senza speranza e senza futuro ; il sottile veleno del crepuscolarismo che stava trasformando la mia esistenza in un Lager e i miei pensieri in nuovi, infernali aguzzini : tutto svanisce in una rinnovata, vibrante apertura alla Vita.
Mi lascio andare totalmente a seguire la storia, terribile ma esaltante di Victor Frankl, come se navigassi su di un fiume impetuoso, le cui acque riprendono a correre, avide di mare, dopo il primaverile disgelo, finchè, con indicibile, travolgente commozione, vivo con lui la sua liberazione e la conclusione del suo calvario, inizialmente quasi al limite dell’incredulità, al punto da richiedere alcuni giorni per adattarsi alla nuova condizione di uomo libero.
Ma “ poi, un giorno, qualche tempo dopo la liberazione, cammini in aperta campagna, per chilometri e chilometri, attraverso prati fioriti, fino alla borgata nelle vicinanze del Lager. Allodole s’alzano in volo, si librano in alto ; senti risuonare il loro canto e la loro gioia, là in alto, nello spazio infinito. Non cè nessuno, lì vicino, intorno a te, vi sono vasti campi e il cielo e il canto di gioia delle allodole e l’infinito. Allora non prosegui più in questo infinito, ti fermi, ti guardi intorno e volgi gli occhi verso l’alto e cadi in ginocchio. In quest’attimo non sai molto di te, né del mondo ; senti in te una frase sola, e sempre quella, ripetuta : ‘Dal profondo chiamai il Signore ed Egli mi rispose dai liberi spazi’ (Sl 118,5). – Quanto tempo sei rimasto là, in ginocchio, quanto spesso hai ripetuto questa frase – il ricordo non può dirlo…. Ma in questo giorno, in quest’ora, è cominciata la tua nuova vita, e tu lo sai. Passo dopo passo, non altrimenti, penetri in questa nuova vita, ridiventi uomo”. (pag.147-148).
Cercavo una risposta. Adesso l’ho trovata.