Il gravissimo fatto di conaca accaduto ieri (22/10/2012 ndr) a Palermo, nel quale un giovane, a seguito della una rottura di un fidanzamento, ha aggredito con un coltello la ex fidanzata, ferendola, ma uccidendo nel contempo la sorella di lei, che aveva tentato di difenderla facendo scudo col proprio corpo, mi ha lasciata profondamente smarrita e perplessa. Senza voler cedere a luoghi comuni, mi sono domandata insistentemente come e perchè possano verificarsi episodi così terribili.
Quando penso che la ragazzina uccisa aveva quasi la stessa età di mia figlia, il cuore e la mente mi si raggelano, e un pensiero insistente mi assale : ma noi genitori ascoltiamo veramente i nostri figli? Sappiamo autenticamente oltrepassare il piano delle semplici attenzioni pratiche, per aprire con loro un dialogo ben più profondo e confidenziale su ciò che li può preoccupare, tormentare e scatenare emozioni incontrollate?
Cerchiamo di conoscerli veramente, oppure ci basta assicurare loro il “pane quotidiano”, magari di lusso e per giunta “firmato”, ignorando “l’altro pane” di cui essi hanno ben più profondo bisogno per vivere in modo meno irrazionale ed incontrollato? Oppure, ancora, ci preoccupiamo soltanto che vadano bene a scuola, prendano dei buoni voti, studino diligentemente, siano il nostro “fiore all’occhiello” e li rimproveriamo aspramente se non rispondono a queste nostre aspettative, tormentandoli con l’incubo della scuola, come se la scuola fosse l’esclusivo passaporto per la vita, mentre spesso non ci curiamo di fare chiarezza su ciò che veramente può tormentarli e roderli in profondità ?
Entrare autenticamente nel mondo dei figli, accompagnarli nella loro crescita quasi ri-crescendo anche noi assieme a loro, è un gesto d’amore che la fretta e la mancanza di tempo che spesso caratterizzano la nostra vita non possono permetterci di ignorare.
Specialmente quando sono in gioco i primi sentimenti “forti” come l’innamoramento. Dinanzi ad emozioni di questo tipo, noi adulti spesso preferiamo limitarci a fare da osservatori, cullandoci con “sufficienza” sull’onda di facili e scontati slogans. Questo atteggiamento, già di per sé deprecabile e deludente, può, nella maggior parte dei casi, malgrado tutto, scivolar via senza arrecare gravi danni.
Tuttavia vi sono delle situazioni, dove il nostro sguardo troppo distratto risulta del tutto inadeguato ad individuare la presenza di eventuali rischi di degenerazione emotiva. Talvolta gli innamoramenti possono assumere tinte morbose, divenendo vere e proprie ossessioni, dove il desiderio di “possedere l’oggetto d’amore” finisce col prevalere in modo monovalente su ogni altra più “sana” sfumatura emozionale.
Quando ciò accade, vi è quasi sempre una desolata solitudine affettiva a fare da sfondo ad un modo così “cieco, avido, disperato e disperante” di vivere un sentimento d’amore. Solo chi ha fame d’amore, di un amore sempre desiderato e mai ricevuto, che è rimasto dentro come l’ossessiva nostalgia d’una “terra promessa” sempre agognata e mai raggiunta, rischierà di vivere l’innamoramento come una drammatica “appropriazione totale” dell’oggetto d’amore. In tale prospettiva, la “perdita dell’oggetto d’amore” nel caso della rottura di un rapporto affettivo, diverrà una sorta di “lutto” assolutamente insostenibile, come una vera e propria mutilazione, in grado di scatenare le reazioni più drammatiche e le gelosie più terribili, specialmente se la persona amata ha rivolto le sue attenzioni altrove. In questi casi estremi, ove sia presente una componente patologica, il grande amore di un tempo si capovolge in odio divorante, e il desiderio di possesso si trasforma in una brama distruttiva, fino a degenerare in una furia omicida.
Può essere evitato, o, almeno, contenuto questo processo degenerativo? Nella tragedia di Palermo, poteva essere in qualche modo evitato che un sentimento sublime come l’amore sfociasse in un assassinio, anzichè evolversi in un ben più dignitoso desiderio di lasciare che la persona amata potesse essere felice anche fra le braccia di un altro?
Al di là della valutazione “psichiatrica” dell’azione compiuta dal giovane assassino, io, come madre, sono convinta che qualcosa, forse, sarebbe stato possibile evitare. Mi sono chiesta insistentemente se questo disgraziato giovane abbia mai potuto trovare almeno in uno dei genitori un valido interlocutore, al quale manifestare tutta la propria impotenza a gestire le emozioni, tutta la propria inquietudine ossessiva e tutti i propri pensieri distruttivi
Tutto, purtroppo, mi fa pensare ad un glaciale silenzio interiore,
senza l’eco di voci amiche con le quali confrontarsi, elaborare, smorzare l’impeto distruttivo delle emozioni più incontrollabili. Un silenzio nel quale mai, assolutamente mai, un genitore dovrebbe abbandonare i propri figli.